Il Morzello Catanzarese, “U Morzeddhu Catanzarisa”, è la pietanza per eccellenza del capoluogo calabrese, unica nel suo genere, che si ottiene usando trippa e frattaglie bovine, concentrato di pomodoro, peperoncino piccante, sale, alloro e origano, gustandola con un pane tipico catanzarese denominato “pitta”.
LE ORIGINI STORICHE
Nonostante le sue quasi certe umili origini, questo gustoso piatto ha, da secoli, conquistato il palato di un popolo intero, inclusa la nobiltà, fino a divenire il piatto catanzarese maggiormente rappresentativo.
Il Morzello, per alcuni, sembra risalire al periodo della dominazione saracena, attorno alla fine del secolo IX e l’inizio del secolo X.
Un qualcosa che possa richiamare il morzello è, infatti, presente nella gastronomia dei paesi arabi. Si tratta di una specie di focaccia, schiacciata e dalla preparazione simile, per impasto, alla pitta, che viene offerta ricoperta da intingoli conditissimi e speziati, la quale costituisce quasi un piatto quotidiano.
Altro elemento che possa associare il morzello ad origini arabe è il fatto che la carne e le frattaglie, componenti l’illustrissimo, devono essere rigorosamente di animali “vaccini”, con assoluta esclusione della carne di maiale.
Per altri, l’origine del morzello è da ricercarsi nella zona compresa tra Catanzaro ed i paesi di Tiriolo e Taverna, riconducibile ad un’antica ricetta di origine ebraica, se non addirittura saracena, che aveva interiora di vitello, c.d. “diuneddhi“, fra i suoi ingredienti principali.
Il termine “morzeddhu“, che deriverebbe dal latino morsicellus “piccolo morso”, si ritrova anche nella lingua francese morsel, “bocconcino”.
Il centro storico del capoluogo calabrese era, fino a pochi anni fa, pieno di morzeddhari, che, nelle loro caratteristiche osterie “putiche”, alle dieci del mattino, cominciavano a vendere questa pietanza agli operai, braccianti e manovali, che avevano già ore di lavoro alle spalle. Da sottolineare, però, che il piatto, già a quell’ora della mattina, era apprezzato anche da appartenenti al ceto borghese della città. A questi lavoratori bastava una porzione di morzello per rigenerare la loro energia fisica, e continuare il lavoro della giornata.
Il Morzello nasce come piatto povero, fortemente identitario di una tradizione popolare, composto da quelle frattaglie (famoso quinto/quarto) disprezzate storicamente dai ceti più abbienti della società. Ma, la genialità e la fantasia gastronomico-catanzarese ha prodotto il suo successo indiscusso, tanto che, il corso del tempo ha consentito che il gustoso piatto potesse essere richiesto anche sulle tavole dei ricchi.
Circa l’origine dell’Illustrissimo, l’Antica Congrega Tre Colli considera con amabile goliardia la leggenda raccontata dal poeta catanzarese Achille Curcio, associato onorario della Congrega stessa, che, nel suo libro “La mia Catanzaro”, racconta la “Leggenda di Natale: U Morzeddhu”, riportata in calce della presente.
Da ricordare che il Morzello è stato il primo prodotto Catanzarese ad essere tutelato con la De.C.O. – Denominazione Comunale d’Origine –, riconoscimento concesso dalla amministrazione comunale di riferimento ad un prodotto, in genere strettamente collegato al territorio, senza alcuna sovrapposizione con le denominazioni d’origine vigenti.
LA PITTA
E’ un tipico pane catanzarese a forma di “ruota” schiacciata e con poca mollica.
Anche la storia del termine Pitta ci riconduce alla tradizione araba.
La Pitta Catanzarese potrebbe derivare dalla “Pita” (in Ebraico פִּתָּה o פיתה, in Arabo كماج , in Greco πίτα) che è un tipo di pane piatto lievitato e rotondo.
LA RICETTA ORIGINALE
INGREDIENTI per preparare 1kg di Morzello (4/6 persone)
• Trippa (reticolo, rumine e cento pezzi) 800 gr
• Cuore (una parte)
• Polmone (una parte)
• Milza (una parte – facoltativa)
• Esofago
• Intestino crasso
• Una parte di grasso vaccino
• Origano
• Due foglie di Alloro
• Peperoncino piccante
• 150 gr. di concentrato di pomodoro
• Sale quanto basta
PROCEDIMENTO
Lavare bene gli ingredienti, in modo particolare la parte di intestino, quindi mettere a cuocere la
trippa in abbondante acqua salata assieme al grasso vaccino; a parte cuocere il cuore, il polmone, l’intestino e l’esofago; ancora a parte la milza, altrimenti scurisce gli altri ingredienti. Quando, infilzando una forchetta, ci si accorge che affonda per bene nella trippa, si può terminare la cottura.
Fare raffreddare il tutto, senza eliminare l’acqua di cottura della trippa, tagliare a striscioline la trippa ed a pezzetti gli altri ingredienti.
In una pentola molto capiente, si raccoglie il grasso dell’acqua di cottura risalito in superfice, unendo tutti gli ingredienti tagliati. Si fa soffriggere, fino a quando non si scioglie il grasso.
Quindi si mette l’alloro, il concentrato di pomodoro, procedendo con la mantecazione del tutto. Nel caso in cui la quantità di morzello fosse superiore, in proporzione al tutto, si può aggiungere una bottiglia di passato di pomodoro, quindi si allunga il tutto con l’acqua di cottura della trippa (non degli altri ingredienti); è importante aggiungere anche un bel mazzetto di origano e il peperoncino piccante, facendo cuocere tutto a fuoco lento, lasciandolo “pippiare” per 2/3 ore, rigirandolo ogni tanto col mazzetto di origano (non con il cucchiaio di legno, il cucchiaio deve essere l’origano!). E’ assolutamente vietato sfumare con il vino!
Il morzello deve essere servito caldissimo nella pitta, la quale deve essere preventivamente bagnata alle due estremità e poi riempita; si mangia iniziando dai lati, in modo che al centro resti sempre caldo.
“T’ha dde sculara gargi gargi”, come si dice nel dialetto catanzarese, è quello che succede durante la degustazione, quando il sugo bagna inevitabilmente i lati esterni della bocca.
Si dice che il morzello si debba mangiare bestemmiando, nel senso che deve essere molto piccante e molto caldo!
ALTRE VERSIONE DEL MORZELLO
Esistono anche variabili dell’Illustrissimo Morzello Catanzarese.
Fra queste c’è da ricordare:
il Morzello di Baccalà, in uso storicamente il giorno del Venerdì Santo, perché tradizionalmente durante la Quaresima e in particolare durante il Venerdì Santo non si mangia carne;
il Morzello di trippa, costituito solo dalla trippa del vitello;
Il Morzello Minutu, preparato con le interiora del capretto e dell’agnello;
Il Soffritto di maiale, realizzato per l’appunto con carne ed interiora di maiale.
Leggenda di Natale: U MORZEDDHU
Da “La mia Catanzaro” di Achille Curcio
Molti, ma molti anni, fa viveva a Catanzaro una giovane donna di nome Chicchina;
era nata in un abituro arredato di miseria, ma era cresciuta bella quasi per vendicarsi della stessa povertà, che l’aveva mal nutrita per anni.
Non aveva incontrato un principe azzurro, come la fortunata Cenerentola:
aveva trovato un giovane marito, che soltanto saltuariamente lavorava da quando in città avevano chiuso i telai che producevano antichi damaschi.
La giovane moglie lo aiutava allora a raccogliere centinaia di sacchi di foglie di gelso, che servivano per nutrire i bachi da seta che ogni famiglia allevava per il fabbisogno delle filande.
Avevano trovato casa nel rione TUVULU, dal nome dell’antico burrone.
L’abitazione era costituita da un solo vano a piano terra, con una sola finestra;
in esso c’era un letto matrimoniale con sopra l’immagine della Madonna,
messa lì ad alimentare la fede e la speranza della giovane coppia.
Era quello il quartiere dei poveri,
ma di quei poveri che vestivano e mangiavano da poveri,
e i bambini avevano il pallore dei poveri e i piedi nudi,
come tutti i poveri del mondo.
Lì c’era, e c’è ancora, la fontana di TUVULEDDHU.
In quel punto sorgeva un agglomerato di pagliai,
capanne a forma conica con scheletro di pali e intessitura di frasche e canne.
D’estate erano utilizzati per la vendita dei fichidindia,
resi freschi dall’acqua di quella sorgente;
i Catanzaresi attraversavano la città e trovavano in quel luogo benefico sollievo alla calura.
Poi un giorno il marito si allontanò da casa per trovare altrove lavoro;
lo sposò, però, la morte che gli approntò un letto di terra che reggeva un verde cipresso.
Chicchina rimase vedova, vestita con neri stracci,
come vestono i poveri; si ritrovò con due figli da sfamare con erbe spontanee,
cicorie, cardi e borragini, e qualche tozzo di pane che la provvidenza le procurava,
perché nelle preghiere aveva sempre richiesto quel pane quotidiano che Dio sa dare.
Quel tugurio, senza il suo uomo, ora le offriva freddo e fame;
e la fame, impietosa, aveva bussato alla sua porta in compagnia della morte.
In quell’abituro, nero come la notte,
non entrava neppure un pallido raggio di sole,
e sui vetri appannati dell’unica finestra la pioggia cadendo accompagnava la fine del giorno.
Ora la sera per Chicchina era fredda come il ghiaccio,
saziava la sua anima affamata col pane della preghiera;
stava ad aspettare un passo che non tornava in quella casa,
o il rumore di una porta che non si apriva.
Sui muri, intanto, la muffa aveva dipinto volti di orchi e megere,
bocche squartate dal continuo sbadigliare: immagini di terrore e smarrimento.
Mancava poco al Natale e Chicchina, come altre volte,
fu chiamata a ripulire il grande cortile,
dove venivano macellati gli animali da carne per i bisogni dei Catanzaresi.
Portate via le bestie scuoiate e sezionate, rimanevano ammucchiate in un angolo le pelli,
che un addetto recapitava alla conceria.
Alla donna toccava ripulire lo spiazzo colorato di sangue;
poi in una grande cesta raccoglieva le frattaglie scartate,
quelle non idonee alla vendita:
tutte le budella, dall’intestino crasso a quello cieco, fino al retto.
Era sua incombenza trasportarle nella discarica della Fiumarella,
ma quella volta con quel carico sostò sull’uscio della sua stamberga. Si liberò dal peso della cesta per bere un sorso d’acqua; si lasciò andare sul gradino di casa per riprendere fiato; diede uno sguardo ai ragazzi, che riposavano ancora e che, a sera, avrebbero seguito, per le strade della città, le zampogne che suonavano la novena di Natale.
Chicchina guardò la cesta colma di frattaglie:
“Perché – si domandò – i ricchi mangiano la carne e rifiutano soltanto le parti di ciò che sta dentro le bestie? Forse per il contenuto che le budella ancora custodiscono, e devono essere sepolte nella discarica tra le immondizie…?”.
All’improvviso le si affacciò nel pensiero l’idea di pulire
tutto quel cordame d’intestini:
li svuotò del contenuto, li rivoltò come un calzino;
poi li affogò in una tinozza ricolma d’acqua,
lavando e nettando fin quando non furono veramente puliti.
Tagliò il tutto a pezzetti e non scartò neppure la parte terminale,
che era il tratto più grasso dell’intestino.
Aggiunse qualche pezzetto di polmone e di milza,
sfuggiti allo scarto dei beccai e recuperati nella cesta.
Poi li trasferì nella tinozza con acqua nuova
che sgorgava fresca dalla fontana di Tuvuleddhu.
L’idea era quella di utilizzare quelle frattaglie, di cui nessuno si era mai servito,
per il cenone di Natale con i ragazzi.
Non avrebbe, però, confessato loro la natura di quel pasto:
una profanazione alla solennità del Natale che nessuno avrebbe dovuto scoprire.
Quell’anno la Madonna aveva scelto di partorire a Catanzaro,
ma non aveva trovato neppure una stalla dove fermarsi e regalare all’umanità il Redentore.
C’era una spianata nella zona di Tuvuleddhu,
dove sorgevano i pagliai utilizzati soltanto d’estate per la vendita dei fichidindia.
Giuseppe condusse Maria in uno di essi:
quello che gli apparve il meno esposto al vento e al freddo.
Lì giunsero dalla campagna circostante un bue e un asinello,
le creature che prima degli uomini avrebbero adorato il Messia.
Chicchina aveva posto sul fuoco un tegame con tutte quelle frattaglie,
affogate nell’acqua con un po’ di sale.
Aveva svuotato la brocca e ora, a notte fonda, era necessario riempirla.
Si tirò sulle spalle il pesante mantello del marito
e si sentì protetta per raggiungere la vicina fontana.
Poi sulla via del ritorno, notò una luce accecante in uno dei pagliai.
Si avvicinò curiosa e rimase estasiata:
c’era la Madonna nell’atto di porre nelle braccia di Giuseppe il bimbo appena nato.
Chicchina in un baleno si levò il mantello e coprì quella creatura ancora nuda;
la Madonna le sorrise, mentre sul pagliaio una schiera d’angeli cantava
“Gloria a Dio nell’alto dei cieli”.
Poi aiutò la Madonna a sdraiarsi e la sua mano
sfiorò dolcemente il volto di Dio fatto uomo.
Avvertì la stessa felicità dell’attimo in cui divenne madre:
ora quel bimbo, coperto col suo mantello,
le apparteneva e tante volte lo aveva invocato nella sua disperata solitudine.
Maria glielo affidò per una ninna nanna;
una di quelle ninne nanne che le mamme calabresi sanno cantare dolcemente ai loro figli. Chicchina timorosa si strinse al petto
la divina creatura e cominciò a cantare:
“Bambinuzzu, bambineddhu /
chi nescisti accussì beddhu, /
e a mia non dira no, /
fai la ninna, ninna oh!”.
Ora la Madonna e Giuseppe guardavano felici la povera Chicchina,
che cantava la ninna nanna al più povero dei re.
Cominciarono ad arrivare pastori da ogni contrada:
uno portava broccoli, un altro una ricotta, un altro il pesce,
un mugnaio la farina, una nobile signora uno scialle di seta
e poi tanta frutta, tante focacce e panni per il divino infante.
C’era pure l’incantato del presepe, immobile come una statua, la bocca spalancata e le braccia aperte dinanzi al Redentore.
Dalla Porta Marina giunsero pure i Re Magi: tutti
quei pastori erano obbligati a transitare per la via dove sorgeva il tugurio di Chicchina.
Una schiera d’angeli curiosi entrò per visitare quell’abituro;
trovarono i bimbi addormentati e il tegame sul fuoco:
un angelo cuoco comprese che a quelle frattaglie mancava qualcosa:
versò salsa di pomodoro, poi un’aggiunta di origano e una manciata di peperoncino.
Rimestò il tutto e fattone un assaggio sentenziò ch’era un ottimo pasto.
Le campane di mezzanotte suonarono la nascita del Redentore e Chicchina
si svegliò dal lungo sonno, che l’aveva vista partecipe di quella nascita.
Credette di aver sognato, ma nella squallida stamberga
trovò tutti quei doni che i pastori avevano deposto nel pagliaio di Tuvuleddhu:
si ritrovò sulle spalle lo scialle di seta che la nobile signora aveva portato alla Madonna;
sulla tavola imbandita c’era di tutto; in bella evidenza anche le focacce,
che servivano per gustare quell’insignificante piatto di frattaglie
che gli angeli avevano trasformato in cibo squisito,
atto a solleticare la gola e, in futuro, a soddisfare la ghiottoneria dei Catanzaresi!
Chicchina svegliò i bambini e mangiarono quella pietanza;
sul loro volto c’era il sorriso di Gesù bambino,
che la povera vedova aveva cullato nel pagliaio di Tuvuleddhu.”
ACHILLE CURCIO